La stagione, i cuochi e i sacrifici mai accettati
Uno sguardo realista, polemico e amareggiato nei confronti della “stagione”, una pratica di lavoro in fondo poco conosciuta ma che fa parte della fatica quotidiana della ristorazione.
Durante la scorsa estate i telegiornali hanno ripresentato la solita, trita e banale notizia: «i giovani italiani non hanno più voglia di lavorare». La disoccupazione aumenta, i lavoratori non si adattano alla situazione e questo riguarda soprattutto la ristorazione e il settore alberghiero, dove la stagione vede sempre meno lavoratori accettare le offerte di lavoro. Ma che cos’è questa “stagione” di cui si parla tanto?
La “Stagione” che tutti rifiutano
Con questa parola, nel gergo del settore turistico si indica il periodo di maggiori opportunità economiche; per la ristorazione quindi sono, a seconda del luogo, l’estate e l’inverno. Per i cuochi ed i camerieri la stagione è un periodo strano. Certo, ci sono molte occasioni di lavoro: l’afflusso di clientela è sempre altissimo e servono dipendenti, forze fresche, sostituti. Spesso si può incappare in qualche offerta veramente vantaggiosa, uno stipendio buono ed un’esperienza utile da aggiungere al curriculum. Ma purtroppo non è sempre così.
Se fosse tutto semplice, allora non ci si porrebbe il problema. Eppure, gli operatori turistici, ed in particolare i ristoratori, non trovano personale per la stagione. Perché nessuno vuole lavorare?
Troppe volte, il lato della medaglia problematico è quello che non si vede. Basterebbe provarlo, calarsi nella trincea del lavoro stagionale per capire che cosa significa. Se comprendessimo la fatica tremenda, lo stress, i sacrifici, i soprusi, forse saremmo più comprensivi; forse non ci chiederemmo perché i giovani non hanno voglia di lavorare, ma lotteremmo perché il lavoro stesso possa diventare migliore, accettabile. Perché le occasioni diventino stimoli per crescere, e non torture da aspettare con terrore.
Considerare i due lati della medaglia
Facciamo un gioco: immaginiamoci per un attimo di essere “dietro le quinte”, tra le pareti di una cucina durante l’estate. Mettiamoci nei panni di un giovane cuoco che ha deciso di mettersi in gioco per la stagione. Lavoriamo in piedi, davanti al caldo infernale di stufe e fornelli per 10 o 11 ore, con scarse e brevi pause; le gambe ci fanno male, le mani sono piene di lividi, e la giacca quasi ci soffoca, ma le cose da fare non mancano mai, non possiamo fermarci.
Sopportiamo anche noi lo stress di 150, 200 coperti a pasto, con le comande che fioccano una dopo l’altra e la pressione che aumenta, senza la possibilità di sbagliare o di rallentare. Andiamo incontro ai turisti esigenti, che essendo in vacanza pretendono che i piatti siano fatti come vogliono loro, magari avanzando richieste difficili e particolari. Aggiungiamoci inoltre una paga misera, perché magari il nostro datore di lavoro vuole sfruttare la nostra poca esperienza, oppure il fatto che “la stagione funziona così, si lavora di più quindi ti devo pagare meno”. E togliamoci il giorno di riposo, perché le settimane di punta non permettono tregua, non ammettono pause.
Ora svegliamoci dal sogno: siamo nuovamente seduti a tavola nel ristorante. Accanto a noi abbiamo la nostra amata famiglia in vacanza, ci stiamo gustando un piatto di spaghetti alle vongole in riva al mare. La sala del ristorante è piena, si sentono il vociare delle persone intente a mangiare e il tintinnio delle posate sui piatti; i camerieri corrono a destra e a sinistra, visibilmente agitati e stressati. Gli spaghetti non sono buoni, sono scotti: sicuramente il cuoco non ci avrà fatto caso, sommerso dalle comande, e li avrà dimenticati nel bollitore quel minuto di troppo. Di solito li avremmo rispediti al mittente; ma poi lanciamo uno sguardo verso la cucina, e attraverso la fessura della porta intravediamo l’intera brigata rossa per la fatica, agitata, indaffarata, e ci ricordiamo di quel piccolo “sogno” da cui ci siamo destati. Per stavolta non lo rimandiamo indietro. Per stavolta, siamo più indulgenti.