Cibo

Arancina mon amour, un flashback tra cibo e poesia

Arancina o Arancini: storia, origini e forme tipiche dello street food siciliano che, da secoli contrappone, diverse città dell'isola su questioni etimologiche e filologiche.

Maschio o femmina, a punta o rotondo. Chi l’ha assaggiata la ricorderà per tutta la vita. Storia della “palla di riso che resiste ai secoli”, come l’ha definita lo storico palermitano Gaetano Basile.

Arancina o Arancini: storia, origini e forme tipicheUfficialmente riconosciuta e inserita nella lista dei prodotti agroalimentari tradizionali italiani del Ministero delle Politiche Agricole, street food siciliano per antonomasia, una palla di riso – almeno dal secondo dopoguerra – divide la Sicilia dal punto di vista gastronomico.

Arancina contro arancino, cono contro sfera: sono le dispute etimologiche e filologiche che contrappongono palermitani e catanesi, trapanesi e messinesi fino al punto che potrebbero degenerare in liti che riportano alle tenzoni medievali.

Storia e origini: i piccoli soli di Sicilia

Se la parte occidentale dell’isola, Palermo in testa, appella al femminile il caratteristico timballo di riso prelibatamente condito e racchiuso da doratura fritta in sferica forma, quella orientale e meridionale prediligono, invece, l’arancino: conico, maschio. E considerando la fama mondiale di uno dei più tipici street food della Trinacria, si tratta di uno scisma di natura quasi religiosa.

Quanto alle origini, la tradizione ci rimanda al periodo di dominazione araba, tra il IX e XI secolo. Durante i banchetti infatti, i saraceni usano collocare a centro tavola un ampio vassoio carico di riso aromatizzato con zafferano e insaporito con verdure, carne e altri aromi. I commensali allungano la mano, appallottolano il riso nel pugno e lo gustano dopo averlo condito con carne di agnello.

La panatura è un’invenzione successiva, ma geniale. La croccante corazza dorata, ottenuta mediante la frittura, trasforma il godurioso pasticcio in cibo da viaggio, in uno street food ante litteram. Qualcuno attribuisce la bella pensata al sovrano svevo Federico II, particolarmente ghiotto di arancini e desideroso di non privarsene durante le lunghe battute di caccia.

Nel XIII secolo Giambonino da Cremona, tra i più grandi traduttori dall’arabo del Medioevo, nel Liber de ferculis et condimentis – dedicato alla gastronomia araba – spiega che tutte le polpette preparate in quella cultura prendevano il nome dai frutti cui somigliavano, per forma e dimensione. Ecco, quindi, l’assimilazione all’arancia (in arabo naranj) anzi, a una piccola arancia, da cui la scelta del femminile “arancina”. Del resto, in quell’epoca, la Conca d’Oro palermitana risplende di rigogliosi agrumeti e i dominatori d’Oriente possono ammirare splendide arance un po’ ovunque.

I fautori del maschile, tuttavia, fanno notare che in lingua sicula non è l’arancia il frutto dell’arancio, ma l’aranciu. E in effetti i dizionari dialettali, a partire dal Buldi (1857), registrano il termine al maschile. Bisognerà attendere il 1942 per la prima attestazione del termine “arancino” nella lingua italiana, nel Dizionario moderno del Panzini.

Per la Crusca, comunque, entrambe le diciture sono corrette, nella misura in cui il femminile ha un’impronta più vicina alla lingua italiana e il maschile è di derivazione dialettale. È pur vero, però, che se l’agrigentino di Porto Empedocle, Andrea Camilleri, fa sbavare il suo Montalbano per gli arancini della governante Adelina, una crepa illustre sul fronte orientale si apre leggendo il celebre romanzo verista I vicerè, in cui il catanese Federico De Roberto tradisce la propria fazione e parla al femminile di arancine di riso “grosse ciascuna come un mellone“.

Arabo si, arabo no

Se il riso e lo zafferano sono tipici ingredienti arabi, è innegabile che il pomodoro comincia a essere coltivato a scopo alimentare nel Sud Italia all’inizio dell’Ottocento, diffondendosi solo a secolo inoltrato. E in effetti il primo dizionario che parla dell’arancino, quello del palermitano Buldi, lo definisce una vivanda “dolce” di riso fatta alla forma della melarancia.

Si delinea, allora, un quadro tanto differente quanto inaspettato: quello di una ricetta nata nella seconda metà dell’Ottocento come dolce di riso e trasformato, quasi subito, in specialità salata.

Quanto alla forma, invece, il nome testimonia, anche escludendo il collegamento con la pallottola di riso araba, che quella originaria dovette essere sferica. Quella conica sarebbe innovazione abbastanza recente, forse ispirata alla figura dell’Etna oppure creata a scopo pratico, considerando che i catanesi impugnano l’arancino tenendolo dalla punta, come fosse un cono gelato.

Uno, nessuno, centomila

Tra le mille varianti, è quello al ragù il più illustre esponente dell’immensa famiglia. Ingredienti base della ricetta dell’arancino sono il riso bollito (quasi sempre aromatizzato con zafferano), la carne macinata (bovino, maiale o vitello), la salsa di pomodoro (rigorosamente in ragù con soffritto di carota, sedano, cipolla e spesso piselli) e il formaggio a pasta filata (mozzarella, provola o cacio).

Unico il tipo di cottura: la pallottola di riso, immersa in pastella e impanata, è sapientemente fritta fino a doratura. Chapeau.

© Articolo di Giuseppe Parasporo

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